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BASKET- MARCO CALAMAI ED IL PROGETTO “OVER THE LIMITS”

BASKET- MARCO CALAMAI ED IL PROGETTO “OVER THE LIMITS”

Paolo Caselli

Paolo Caselli

15 Maggio 2018

Intervista del Corriere della Sera a Marco Calamai, una delle anime del progetto “Over the Limits” che vede anche la nostra testata ”Firenze ViolaSupersportlive ” e il direttore Stefano Ballerini in prima fila nell’aiutare questo progetto.

 

Il canestro sta lassù, in attesa di un pallone, 305 centimetri sopra quel gruppo di ragazzi tanto rumorosi quanto disciplinati. In mezzo a loro, un allenatore che tradisce la propria età, 66 anni, solo per il colore dei baffi, ormai tendente al grigio, ma che sul campo mette stessa energia e stesso entusiasmo dei suoi allievi. Guidato da una filosofia semplice ed efficace: «Il canestro, quel canestro, è una metafora ma è assolutamente reale. Il basket è lo sport più bello e intelligente del mondo perché è l’unico sport che tende al cielo». Che detto così non sarebbe poi niente di speciale, se non fosse che a guardare al cielo sono ragazzi che lontano dal campo di gioco raramente alzano la testa.

Autistici, per la maggior parte. Disabili, down, caratteriali, iperattivi. Le definizioni pesano come pietre. Eppure. «Eppure guardare in alto, verso il canestro, è una rivoluzione per chi è abituato a tenere gli occhi verso terra, è come se scoprissero un mondo nuovo». In realtà, più semplicemente, scoprono il mondo, punto. Il tizio con i baffi che urla istruzioni, incita, lancia il pallone, fa correre il gruppo, si chiama Marco Calamai. È l’allenatore. Non è un allenatore qualsiasi: 365 partite in panchina in serie A parlano per lui. Tra Ferrara, Pavia, Reyer Venezia, Firenze, Fortitudo Bologna, Libertas Livorno. Sempre alternativo.

Classe 1951. Sciarpa, baffoni e capello lungo. La mattina, anziché andare in palestra, faceva fruttare la sua laurea in filosofia insegnando lettere in un liceo.«Credevo che svegliarsi il lunedì mattina rimuginando su una partita persa per un canestro sbagliato fosse un errore, così ho deciso di continuare a fare il professore anche quando l’attività di allenatore è diventata una professione vera: a scuola dovevo pensare a insegnare, a risvegliare la curiosità dei miei studenti. Nient’altro». Non un allenatore qualsiasi. Votato allenatore dell’anno in serie A nel 1982, campione del mondo alla guida della Nazionale militare nel 1990. Fu lui a far debuttare un giovanissimo Gianmarco Pozzecco a Livorno, quel Pozzecco che poi avrebbe trascinato l’Italia fino all’argento olimpico di Atene 2004. Insomma, una carriera vera. Poi la svolta. Nel 1994 Livorno, la sua squadra salta: non ci sono più soldi. Calamai non si guarda neppure in giro, non cerca un’altra panchina, a 43 anni si scopre stanco. «All’improvviso mi sono reso conto che non insegnavo più, che dovevo ogni giorno lottare con ragazzi che non vivevano la palestra come un gioco ma come un lavoro e che ascoltavano solo se stessi e i procuratori. E ho detto basta».

Come sempre, le grandi cose nascono per caso. Casuale fu l’invito di Emma Lamacchia, responsabile dell’associazione La Lucciola, arrivato mentre Calamai già meditava di tornare a insegnare a tempo pieno: «Perché non vieni a fare un giro da noi?». Dove «noi» significava un centro di terapia intensiva per ragazzi disabili. E lì arrivò l’illuminazione: «Incontrai questi ragazzi, praticavano lo sport come terapia ma si trattava di nuoto ed equitazione, sport individuali. Chiesi: avete mai pensato di provare con sport di gruppo? La dottoressa Lamacchia mi guardò un po’ perplessa, poi rispose: no, ma potremmo tentare. Lei insegna basket, le andrebbe di provarci? Accettai, più con l’istinto che con la testa».

Così, nell’agosto 1995, Marco Calamai si ritrovo su un campo di gioco con 17 ragazzi con difficoltà psichiche. «C’era chi si agitava per prendere la palla, chi si proteggeva la faccia per evitare di essere colpito, chi guardava il pallone con finta indifferenza. E non sapendo bene come comportarmi, feci quello che sapevo fare meglio: li allenai. A modo mio. Correndo, saltando, urlando, incitando. Arrabbiandomi. Non conoscevo altri sistemi». Funzionò. «Eppure all’inizio non sapevo se avrei resistito: invece sgrido i ragazzi e li alleno come una qualsiasi altra strada». La prova provata arriva quando Junior, ragazzo introverso e incapace di esprimersi in pubblico, si presenta per la prima volta ad allenarsi accompagnato dalla madre. Calamai lo incalza, lo sprona, lo sgrida come un qualsiasi altro giocatore, la madre osserva allibita. A fine allenamento prende il figlio dicendogli «tu qui non ci vieni più». Junior la blocca: «Mamma, non hai capito niente, è solo per far rispettare le regole». Junior resterà per lungo tempo uno dei giocatori di Calamai. Giocatori sparsi per tutta Italia.

Oggi sono quasi 1.000 nei 30 centri del Progetto Over Limits, legati a realtà sportive importanti, dalla serie A in giù. Gruppi che assemblano normodotati e disabili che giocano alla pari, senza differenze, oggi un sistema ormai riconosciuto, totalmente rivoluzionario quando venne ideato dall’omone con i baffi. Lo chiamano Metodo Calamai. «Ma non è un metodo, sono solo due concetti base e tre regole. Concetti: 1) grande competenza nel basket; 2) capacita e voglia di scambiarsi con loro. Regole: 1) prendi la palla e se me la rendi potrai giocare, il passaggio come dialogo; 2) ognuno di noi ha più qualità che limiti, basta vedere le prime piuttosto che i secondi; 3) quando giochi, ti devi divertire». La quadratura del cerchio è arrivata quando per una partita è stato invitato a giocare Pozzecco. Entusiasta: «Ho sempre pensato che lo sport esaltasse la differenza di abilità fra un individuo e l’altro. Con quei ragazzi abbiamo giocato da normali cancellando quelle che tutti noi consideriamo evidenti “differenze”. Quella partita mi ha cambiato la vita». Non solo la sua. Calamai, come si cancella l’ego di un allenatore? «Non si cancella, quello rimane. Però ci sono momenti che ti fanno scomparire. Ricorderò sempre quando riuscii a far sorridere con un pallone Sofia, una bimba di 10 anni che non parlava. Un giorno prese un tavolo, lo piazzò sotto il tabellone, ci salì sopra, si fece dare il pallone e fece canestro. Poi prima di andarsene mi diede la mano e mi disse “ciao”. Era la prima parola che diceva in vita sua. Sua madre scoppio a piangere. Un’emozione enorme. Fu il giorno in cui davvero pensai: ho fatto la scelta giusta».

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